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Authors: Gianluca Morozzi

Blackout (19 page)

BOOK: Blackout
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DECIMA ORA

La fiammella dello Zippo è morta già da un’ora, ma Claudia non ha paura del buio. È troppo impegnata a ricordare le parole di una canzone, seduta, concentrata, con i pugni sulle tempie.

Un tempo si era messa in testa di imparare i rudimenti della chitarra, Claudia, col solo aiuto della Clarissa scordata di suo fratello, di un manualetto degli accordi, e di un canzoniere di Vasco Rossi. Non era andata oltre a una grattatina informe che vagamente ricordava la base di quella canzone, quella di cui confonde irrimediabilmente il testo. Inizia a cantarla flebilmente nell’oscurità, arriva fino al punto che non riesce a rammentare. Poi rinuncia, e chiede aiuto.

«Tomas? Come fa il testo di
Albachiara
? C’è prima
Nei tuoi pensieri
o
Nei tuoi problemi
? Io mi ricordo come si suona con la chitarra, do, sol, la minore, questo me lo ricordo, solo, ho scordato le parole. Cosa viene prima,
Nei tuoi problemi
o
Nei tuoi pensieri

«Non lo so.»

«Fa lo stesso. Cantala con me. Cantiamola come ci viene.»

La voce di Claudia è l’ululato triste di un coyote col deserto nella gola. Quando la canzone incontra lo scoglio dei pensieri e dei problemi, la lascia morire senza rimpianti.

UNDICESIMA ORA

«Claudia? Stai dormendo?»

«Tomas? Sei tu?»

«No.»

«Chi sei?»

«Lo sai.»

«No che non lo so. Io sto cercando di dormire, Tomas è mezzo svenuto, e tu sei morto con la testa tra le porte. Quindi, vedi di restare morto e vaffanculo.»

«Mi dispiace che tu mi abbia conosciuto cosı̀, Claudia. Io non ero una cattiva persona, un tempo.»

«Nooo, dai. Raccontami qualche storiella divertente. Raccontami che mi hai quasi violentata e hai fatto a fette Tomas perché tua madre ti faceva leccare i pannolini sporchi. Fammi ridere. Ne ho bisogno.»

«No, davvero. È brutto che tu mi abbia conosciuto in questa veste. Io credevo di essere un ribelle ai tempi della scuola, odiavo mio padre, odiavo quello che era diventato, un fantasma in canottiera gettato sul divano. Una larva che non degnava mia madre di uno sguardo, che spendeva tutti i soldi al bar e dalla solita puttana sdentata che andava a trovare da vent’anni. Andavo in giro per la strada, la sera, mezzo ubriaco, a spegnere i lampioni con un calcio.»

«Immagino, immagino, che triste storia. Allora ti perdono, ti comprendo, guarda. Hai fatto proprio bene ad accoltellare Tomas, adesso è lı̀ che sanguina come un maiale, poverino, ma la colpa è tutta del tuo vecchio che andava a troie. Già. Hai quarant’anni e non hai ancora superato il trauma di tuo padre che andava a troie, perfettamente ragione. Forse è stato meglio cosı̀, povera anima. Forse stai meglio in mezzo alle porte, col cervello che cola giù per il vano. Che ne dici?»

«Sai, Claudia? Io ho partecipato a un concorso, una volta. Un concorso per sosia di Elvis.»

«Non mi dire.»

«Io mi ero allenato tantissimo per quel concorso, avevo preparato
Can’t Help Falling in Love
. Mi ero esercitato davanti allo specchio, col registratore, ero perfetto. Assolutamente perfetto. Be’, sono arrivato al concorso che ero emozionato come un bambino, in questa balera dozzinale nella Bassa, sono andato in bagno cinque volte da tanto che ero nervoso, e all’ultimo momento mi hanno cambiato la canzone. Ci credi? Prima di me c’erano già altri quattro concorrenti con
Can’t Help Falling in Love
, e allora mi hanno cambiato la canzone. Ci sono rimasto malissimo.»

«Immagino. Terribile vicenda. Angosciante.»

«Ho dovuto improvvisare, ho fatto
Suspicious Mind
ma non l’avevo preparata, capisci, non ero pronto. Sono arrivato dodicesimo. Dopo tutto il tempo passato a prepararmi, dopo tutte le prove con lo specchio e il registratore, sono arrivato dodicesimo.»

«Mi sanguina il cuore. Ora che ti sei sfogato, per piacere, vuoi farmi il piacere di tornare nel buio e restare morto? Per favore?»

«Avrei vinto, se mi avessero fatto cantare
Can’t Help Falling in Love
. Avrei vinto. Ne sono sicuro.»

«VAFFANCULO!» strilla Claudia ad alta voce. Scatta in piedi nello stridore delle sue ginocchia scricchiolanti «NON ME NE FREGA UN CAZZO DEL TUO CONCORSO DI MERDA! BRUCIA ALL’INFERNO! SEI MORTO, RESTA MORTO! BRUCIA ALL’INFERNO! BRUCIA ALL’INFERNO !»

Dal buio non arriva nessuna voce in risposta. Solo il tossire liquido di Tomas, pochi centimetri più in là.

DODICESIMA ORA

«Tomas?» sussurra nel buio Claudia, la testa sgombra e liscia come un sasso di fiume.

«Hm?»

«Chi dovevi incontrare alla stazione di Parma? Con chi avevi appuntamento, alla stazione di Parma?»

«Nessuno. Non dovevo incontrare nessuno alla stazione di Parma.»

«Che cazzo dici? Certo che dovevi incontrare qualcuno, alla stazione di Parma. Dicevi che la tua vita stava per cambiare, che tutto dipendeva da quell’incontro alla stazione di Parma. Che dovevi vedere una persona alla stazione di Parma, alle venti e cinquantaquattro, mi ricordo benissimo, avevi parlato delle venti e cinquantaquattro, sono sicura. Chi dovevi vedere alle venti e cinquantaquattro alla stazione di Parma?»

«Nessuno. Non conosco nessuno a Parma.»

Claudia scuote la testa. «Va bene. Convinciti di non conoscere nessuno alla stazione di Parma. Muovi pure la lingua come se fosse un pezzo di carne morta, raccontati pure tutte queste belle storielle. Raccontane una anche a me, allora. Raccontami una storia per passare il tempo, che qua dentro il tempo non passa mai, prima che vengano a tirarci fuori potresti anche raccontarmi una storia, potresti, mi pare.»

«Non conosco nessuna storia.»

«RACCONTAMI UNA STORIA! INVENTALA!»

Tomas sputa un grumo di sangue. Deglutisce.

«Ti racconto la storia della principessa Mycomandrya. È una storia molto molto molto bella. Ascolta.» Tossisce, si schiarisce la voce. «C’era un cavaliere in armatura. Stava cercando la principessa Mycomandrya, perché un mago l’aveva rapita per sposarla e renderla la regina dei rospi. Il cavaliere la cercava per liberarla e sposarsela lui, si suppone. Questo la storia non lo dice. Possiamo solamente dedurlo.» Tomas respira a fondo, con un sordo brontolı̀o. «Il mago aveva nascosto la principessa Mycomandrya in una caverna profondissima. Solo un tunnel scavato nella roccia portava alla caverna.»

«È la stessa storia del verme nella montagna?»

«No. Questo è un altro tunnel. Ascolta. Il cavaliere in armatura entrò nel tunnel. Cominciò a strisciare sulla pancia, facendo presa con le dita, artigliando la roccia viva con le unghie.»

«Non aveva dei guanti, l’armatura? Perché doveva artigliare la roccia con le unghie, se aveva dei guanti di metallo?»

«Non faceva presa sulla roccia, con quelle tozze dita di ferro. E cosı̀ strisciò nel tunnel buio per giorni e giorni, con la sete che gli incendiava la gola. Il cavaliere sapeva che sarebbe stato sufficiente avere dell’acqua. Se avesse avuto dell’acqua sarebbe stato bene, sarebbe uscito dal tunnel, sarebbe arrivato alla caverna.»

«E trovò l’acqua?»

«No. Udı̀ un rombo spaventoso, come una frana, e il tunnel si richiuse alle sue spalle. Il cavaliere continuò ad avanzare comunque, fino alla strozzatura.»

«Quale strozzatura?»

«Poco più avanti. Una strozzatura nel tunnel. Un piccolo restringimento. Pochi centimetri. Abbastanza da impedirgli di andare oltre, ma appena appena, una piega di solida roccia. Senza l’armatura sarebbe riuscito a passare.»

«Allora si tolse l’armatura.»

«Ci provò, ma non aveva spazio per muovere le braccia. Si girò e si contorse e si sforzò e lottò con quella gabbia di metallo, ma per quanto provasse e riprovasse non c’era una sola possibilità al mondo di togliersi l’armatura. Nessuna. Proprio nessuna.»

Un brivido a forma di tarantola si arrampica sulla nuca di Claudia. Risale lento dalla spina dorsale, gioca con i suoi capelli verdi. «E allora?»

«Cercò di strappare l’armatura con le dita ridotte a moncherini. Poi tentò di scavare con i denti nella roccia. Non riusciva a credere di essere rimasto sepolto vivo per pochi centimetri, cosı̀ pochi centimetri, non riusciva a crederlo. Scavò con i denti fino a consumarsi le gengive. Alla fine, la sua mente sprofondò nel profondissimo pozzo della follia.»

«È orribile. Una storia orribile.»

«Dicono che sia ancora laggiù. Che si possa sentirlo urlare dal cuore della terra, nelle notti silenziose e senza vento.»

«È orribile. Orribile. ORRIBILE.» La voce di Claudia è stridula come quella di una strega. «Perché me l’hai raccontata? Eh? PERCHÉ ME L’HAI RACCONTATA?»

Conficca le unghie nelle guance di Tomas, le affonda nella carne, digrignando i denti fino a farli scricchiolare. Spinge la sua testa contro la parete d’acciaio alle sue spalle.

Tomas non reagisce. È ipnotizzato dallo stridore dei denti nel buio.

INTERLUDIO: TRE LUCERTOLE IN UN VASO

La luce rossogrigia dell’alba bagna un Transit blu, parcheggiato con due ruote in strada e due sul marciapiede nell’ombra ancora incerta del palazzo.

Dentro il Transit, Walter si agita come un elettrone impazzito. Wilmo, al contrario, fuma davanti ai monitor impassibile, calmo.

«Siamo due criminali» balbetta sconnesso Walter, gli occhi rossi e infossati. «Due criminali, siamo. Ci credevamo artisti ma non siamo artisti, siamo due criminali, due criminali, siamo.»

«Stai calmo.»

«Ma stai calmo cosa, ma cosa stai calmo, ma ti rendi conto? Qui finiamo in galera, cazzo! In galera finiamo, cazzo, cazzo, ma ti rendi conto?, in galera, finiamo!»

«Stai calmo» ripete Wilmo, soffiando fuori il fumo. «Non finiamo in galera. Basta fare le cose per bene, ribaltare un pochino la verità. Se facciamo le cose per bene, usciamo da tutta questa storia candidi e puliti come gigli.»

Torna a osservare Claudia che blatera da sola al centro del monitor.

Illuminata dagli infrarossi che squarciano il buio.

Sapendo di non poter sbagliare, di giocarsi l’avvenire con quel nuovo programma, Wilmo aveva pianificato tutto fino ai minimi dettagli.

Dopo le solite due telefonate di Colui che tutto può, la rete aveva offerto un supporto logistico e tecnico totale. La finta squadra di manutenzione aveva installato nell’ascensore le microcamere nascoste, i comandi a distanza, l’allarme disinserito, il dispositivo schermante per neutralizzare i cellulari. Più certe trovate per vivacizzare il gioco, come le porte modificate.

Quando tutto era stato pronto, la palla era passata nelle mani di Walter e Wilmo.

Avevano appeso il cartello Fuori servizio davanti al secondo ascensore, per convogliare gli inconsapevoli concorrenti nella location predisposta. Poi si erano accampati nella cabina di regia approntata dentro il Transit.

E avevano aspettato che due persone entrassero insieme in ascensore. Due persone di sesso opposto, magari. Che qualche svolta piccante sarebbe stata di sicuro molto apprezzata, in chiave audience.

Avevano scelto la domenica di ferragosto per avere il minor movimento possibile nel palazzo e poter lavorare con tranquillità. Anche se, ovviamente, ad aspettare due persone in un deserto, si rischiava che le due persone non arrivassero mai. Nelle prime ore del pomeriggio, le telecamere dell’atrio avevano inquadrato solo una vecchia che usciva dal garage asciugandosi il sudore con un fazzoletto, saliva in ascensore da sola e scompariva. Nessun altro.

C’era il rischio che le cose andassero parecchio per le lunghe. Nel caso, comunque, Wilmo e Walter erano disposti a vivere accampati nel Transit.

Ci fosse stato bisogno di una settimana o di un mese, non si sarebbero fatti sfuggire quell’ultima opportunità. Avrebbero fatto qualunque cosa.

Poi, verso le cinque del pomeriggio, la telecamera dell’atrio aveva inquadrato il ragazzo col piercing.

Che apriva il portone alla ragazza dai capelli verdi.

Per la prima volta in vita sua, Wilmo si era sorpreso a pregare. Con dita incrociate e denti stretti aveva implorato: «Dai, dai, entrate in ascensore insieme, non siate timidi. È troppo caldo per fare le scale, entrate in ascensore insieme, non siate timidi, dai, cazzo, DAI».

Quand’era spuntato il terzo uomo, be’, Wilmo non aveva potuto credere ai suoi occhi. Un incredibile scherzo del caso. Un colpo di fortuna meritato, finalmente, dopo il disastro di
Constatazione amichevole
.

Nel vederli entrare in ascensore tutti e tre, Wilmo e Walter si erano abbracciati urlando per la gioia.

L’idea era di portare avanti il gioco per qualche ora, girare il tutto, montare il materiale, e ricavarne una decina di puntate. Sperando che nel frattempo capitasse qualcosa in quell’ascensore, qualcosa d’interessante, di sorprendente. Servivano dei numeri inattaccabili, per quel programma. Inattaccabili.

Se qualche abitante del palazzo faceva per rientrare a casa, Wilmo usciva di corsa dal Transit e lo intercettava sul portone. Si presentava come autore televisivo, lo pregava di non usare l’ascensore perché - qui calcava sui toni, indicando la cabina di regia - nel palazzo si stava girando una candid camera. Poi regalava a quegli anonimi vicini di casa il quarto d’ora di celebrità, intervistandoli. Conoscevano la ragazza dai capelli verdi? O il ragazzino col piercing? O il sosia di Elvis dalle enormi basette?

Che quei tre ancora non lo sapevano, ma stavano per diventare i divi di un nuovo reality show dal titolo provvisorio di
Blackout
.

Per tutto il tempo, Wilmo aveva giocato con i suoi inconsapevoli protagonisti. Usando le porte modificate, le luci spente a distanza, i piccoli, illusori movimenti dell’ascensore. Proprio come faceva da bambino, quando chiudeva le lucertole nel vasetto della maionese e poi si divertiva a metterlo nel congelatore, a lanciarlo in aria, ad appoggiarlo sulla lavatrice, sperando che le lucertole impazzissero per il rumore e le vibrazioni.

Una volta girato materiale a sufficienza, Wilmo e Walter avrebbero liberato le tre lucertole prigioniere e placato una probabile reazione isterica con il sostanziosissimo assegno offerto dalla rete. Oltre, chiaramente, alla possibilità di diventare volti noti della TV.

Ma quei piani accuratamente cesellati si erano liquefatti come un ghiacchiolo nel sole, poco dopo mezzanotte.

Sull’orrendo
crac!
di un cranio che si spaccava in mezzo alle porte d’acciaio.

Quando Ferro era morto in mezzo alle porte, Walter era impazzito. «Fermiamo tutto!» aveva iniziato a urlare. «Fermiamo tutto! Tiriamoli fuori! Tiriamoli fuori da lı̀!»

Aspetta, l’aveva fermato Wilmo, incapace di staccare gli occhi dai monitor. Stava guardando una scena orribile, un uomo con la testa tra le porte, un ragazzo ferito e sanguinante, qualcosa di orrendo.

Ma stava anche vedendo i numeri di un’audience stellare.

Numeri inattaccabili.

Il successo.

Cosı̀ aveva placato Walter.

E il gioco era andato avanti.

«In galera, finiamo» ripete Walter con gli occhi acquosi, tormentandosi le mani. «Io l’avevo detto, finiamola qua, l’avevo detto, tiriamoli fuori, è stato un incidente, non è colpa nostra, non potevamo saperlo, non potevamo immaginare che quello avesse un coltello. Potevamo cavarcela, a finirla subito. Potevamo uscirne in qualche modo,
prima

Wilmo non lo ascolta, non lo ha mai fatto. Sta guardando la brace della sigaretta. Pensando al modo per uscire trionfalmente da quella situazione.

Al bluff estremo. L’ultima mano.

«Ragioniamo» dice con voce grave, parlando a se stesso più che al suo teorico socio. «Perché quello teneva in tasca un coltello? Perché si comportava come un maniaco omicida, verso la fine? È possibile che ci sia qualche retroscena potenzialmente interessante?»

«Non lo so, Wilmo, non lo so, non me ne frega niente se quello era un tipo normale o se inculava i gattini, non m’interessa. Noi l’abbiamo guardato morire senza far niente, abbiamo lasciato che il ragazzo sanguinasse per ore e non abbiamo fatto niente, oddio, Wilmo, stavolta non ne usciamo, non ne usciamo, stavolta.»

Wilmo spegne la sigaretta, si alza in piedi. Fissa negli occhi Walter.

«Sı̀ che ne usciamo» dice. «Ascolta. Ascoltami bene.»

Walter si passa le mani tra i capelli. Trema. «Ti ascolto.»

«Bene. Se noi diciamo la verità. Se confessiamo che ce ne stavamo qui in cabina di regia, con i nostri monitor, a guardare l’imbecille che moriva e il ragazzo che sanguinava. Che abbiamo visto tutto questo, e abbiamo comunque deciso di lasciarli dentro, di continuare a girare. Be’, se confessiamo tutto questo, siamo fregati. Non ne usciamo in nessun modo. Potremmo anche sfangarcela per la morte del tipo col coltello, è successo tutto molto in fretta, non siamo riusciti a intervenire, okay. Ma per il ragazzo, bene che ci vada, è omissione di soccorso. Non ce la caviamo.» Abbassa la voce. «Se diciamo proprio l’esatta verità. Naturalmente.»

Walter pende dalle sue labbra. Lo guarda speranzoso come un annegato. «Dimmi che hai un piano per uscire da questo casino, Wilmo. Ti prego. Dimmelo. Ti prego.»

«Certo che ho un piano.» Gli posa una mano sulla spalla, quasi paterno. «Ascoltami bene. Ecco cosa diremo.»

E parla per un quarto d’ora, mentre l’ombra del palazzo si fa più netta e più scura intorno al Transit.

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